venerdì 31 marzo 2017

ABBIAMO SEMPRE VISSUTO NEL CASTELLO di Shirley Jackson

Non sono molto a mio agio con questo genere di letteratura. Quindi per avvicinarmi e prendere confidenza sto facendo dei piccoli passi (come questo piccolo libro). Soprattutto in previsione di ottobre, mese in cui tutte le mie letture saranno di questo genere, e anche peggio, per festeggiare alla fine Halloween.
Mi sono convinta di leggere Abbiamo sempre vissuto nel castello di Shirley Jackson forte del fatto che non l'avrei letto da sola (perché in queste circostanze ho davvero bisogno di sostegno), ma con il gruppo di lettura di Federica Frezza, su Youtube come Prismatic310 (domenica sera ci sarà la live a riguardo).

La diciottenne Mary Katherine ci racconta della grande casa dove vive reclusa, in uno stato di idilliaca felicità, con la bellissima sorella Constance e uno zio invalido. Non ci sarebbe nulla di strano nella loro passione per i minuti riti quotidiani, la buona cucina e il giardinaggio, se non fosse che tutti gli altri membri della famiglia Blackwood sono morti avvelenati sei anni prima, seduti a tavola, proprio lì in sala da pranzo. E quando in tanta armonia irrompe l'Estraneo, nella persona del cugino Charles, si snoda sotto i nostri occhi, con piccoli tocchi stregoneschi, una storia sottilmente perturbante che ha le ingannevoli caratteristiche formali di una commedia.
Ma il malessere ci invade via via, disorientandoci.
Anche in queste pagine Shirley Jackson si dimostra somma maestra del Male - un Male tanto più allarmante di quanto non circoscritto ai "cattivi", ma come sotteso alla vita stessa, e riscattato solo da piccoli miracoli di follia.

Il romanzo L'incendiaria di Stephen King si apre con la dedica: "A Shirley Jackson, che non ha mai avuto bisogno di alzare la voce".
E sembra proprio così. La narrazione appare discreta, delicata e sottotono. Una storia che comincia con toni sommessi e tranquilli, per poi scivolare nell'inquietudine e nell'angoscia. Il fatto che tutto si svolga all'interno della casa da anche un certo senso di claustrofobia.

La scrittura di Shirley Jackson è diretta, senza fronzoli, asciutta, ma che sa trasmettere forti emozioni, senza clamore, senza ostentare, senza appunto alzare la voce.
La prima metà è scorrevole, si legge in fretta e avidamente; mentre la seconda metà trasmette un certo senso di panico e angoscia e mi sono ritrovata a centellinare le pagine che mi mancavano, per non finirlo troppo in fretta, ma anche perché avevo bisogno di fare delle pause. Sì, ve l'ho già detto, sono una fifona e mi lascio impressionare facilmente.

La protagonista, Mary Katherine, è un personaggio curioso e sensibile, con il quale si entra in empatia sin dalle prime pagine. Ha una serie di credenze e superstizioni che sono veramente affascinanti e centrali per lo svolgersi della storia. In più è così protettiva nei confronti della sorella maggiore Constance, capendo i suoi sentimenti e le sue preoccupazioni guardando un semplice gesto, che appare veramente tenera e servizievole. La complicità tra le due sorelle è incredibile e quasi palpabile, possono capirsi solo con uno sguardo, e questo le rilega in un mondo tutto loro "la luna" dove si ritrovano sempre e sono tranquille.
Grazie anche ai siparietti simpatici di zio Julian le situazioni acquistano una parvenza di comicità, ma il grande terribile segreto, che accomuna i tre abitanti della casa, aleggia costantemente in tutto il romanzo e non permette mai di lasciarsi andare a vere e proprie risate, ma più che altro a sorrisi maliziosi.
Il personaggio di Charles, il cugino, è veramente odioso e fastidioso; arriva all'improvviso, si comporta da padrone e a te lettore viene solo da chiederti: "ma questo cosa cavolo vuole?".

In tutto il libro non ci sono dei veri personaggi buoni o cattivi. Ognuno di loro, anche quelli che compaiono solo una volta, sono ambigui e c'è un continuo alternarsi di ruoli.
Il romanzo gioca costantemente sul concetto di male, quella cattiveria che è dentro ognuno di noi, che può portarci a commettere atti indicibili se solo la lasciamo andare.
Tutti i personaggi a un certo punto commettono degli atti cattivi, sleali e vili, per poi tentare di tornare sui propri passi e sistemare le cose. Il fatto che a tutti è concessa una seconda possibilità è fondamentale, non dobbiamo limitare il nostro giudizio a una sola azione commessa da qualcuno, ma guardare oltre e permettergli di migliorare la situazione, anche a modo suo.

martedì 28 marzo 2017

IO SONO MALALA di Malala Yousafzai

Ci sono diritti acquisiti da noi occidentali da talmente tanto tempo, per i quali non abbiamo combattuto in prima persona, che sono diventati scontati, sottovalutati e di poca importanza. Come il diritto all'istruzione, alla cultura, al sapere. Un diritto che non tutti nel mondo hanno, perché moltissimi bambini e soprattutto bambine non possono studiare e la loro istruzione è ostacolata da vari motivi. Questo comporta adulti analfabeti, che non sono in grado di contrastare dittature, soprusi, ingiustizie, imbrogli e propagande sbagliate e scorrette, proprio perché non posseggono i mezzi per farlo.
È fondamentale dare voce a persone come Malala Yousafzai, che ha subito ingiustizie e soprusi, ma ha alzato la voce per farsi sentire da tutto il mondo e denunciare ciò che non andava nel suo Paese, attraverso questo libro "Io sono Malala".
Uno dei doveri più importanti di noi "privilegiati" è dare più spazio possibile e amplificare la voce di persone come Malala.

Valle dello Swat, Pakistan, 9 ottobre 2012, ore dodici. La scuola è finita, e Malala insieme alle sue compagne è sul vecchio bus che la riporta a casa. All'improvviso un uomo sale a bordo e spara tre proiettili, colpendola in pieno volto e lasciandola in fin di vita. Malala ha appena quindici anni, ma per i talebani è colpevole di aver gridato al mondo fin da piccola il suo desiderio di leggere e studiare. Per questo deve morire.
Ma Malala non muore: la sua guarigione miracolosa sarà l'inizio di un viaggio straordinario dalla remota valle in cui è nata fino all'assemblea generale delle Nazioni Unite. Oggi Malala è il simbolo universale delle donne che combattono per il diritto alla cultura e al sapere, ed è stata la più giovane candidata al Premio Nobel per la Pace.
Questo libro è la storia vera e avvincente come un romanzo della sua vita coraggiosa, un inno alla tolleranza e al diritto all'educazione di tutti i bambini, il racconto appassionato di una voce capace di cambiare il mondo.

Malala racconta con grande affetto e un profondo amore incondizionato il suo Paese, il Pakistan, e più precisamente la sua Valle dello Swat. Una valle stupenda, rigogliosa e pacifica dove lei e le sue amiche andavano a scuola e vivevano una vita tranquilla, come ogni adolescente, prima che arrivassero degli estremisti islamici e cominciassero a vietare e ordinare determinate cose (soprattutto alle donne).
La storia del Pakistan, relativamente recente, è una parte importante e significativa della nostra storia mondiale contemporanea. A racconti e avvenimenti cruciali per la formazione e l'evoluzione di questa nazione complicata, si mescola inevitabilmente la storia personale di Malala e della sua famiglia; e racconta di come tutto è cominciato, di cosa è successo di importante e di come era prima che tutto crollasse, precipitasse. Come una novella Anna Frank, a 11 anni Malala comincia a tenere un diario (ma in linea con i tempi che viviamo, quindi un blog) in cui esprime i suoi pensieri e sentimenti, raccontando com'è la vita sotto le pressioni e le imposizioni dei talebani: una vita dominata dalla paura e dall'ingiustizia.

Malala Yousafzai è un'adolescente che lotta apertamente, in una situazione molto difficile a livello politico, per garantire l'istruzione a tutte le bambine nel suo Paese.
Purtroppo in Pakistan, ancora oggi, molte donne sono analfabete e totalmente dipendenti dagli uomini, Malala, fin da piccola, in tutte le sue interviste a giornali e TV e in tutti i suoi discorsi pubblici di fronte a personaggi illustri ha sempre ribadito l'importante concetto in cui crede fermamente ed è disposta a portare avanti a tutti i costi.
In tutto il libro è spiegata la difficile situazione pakistana e il cambiamento che Malala sogna e spera per la sua popolazione. E nella parte che vi riporto qui sotto è spiegato in modo chiaro il succo di tutta la questione:
"In Pakistan noi abbiamo avuto una donna primo ministro, e a Islamabad avevo incontrato quelle straordinarie donne impegnate nelle professioni, ma resta il fatto che il nostro è un paese in cui quasi tutte le donne dipendono totalmente da un uomo. La direttrice della mia scuola, la signora Maryam, è una donna forte e istruita, ma non può venire al lavoro da sola: deve essere accompagnata dal marito, da un fratello o da un altro parente. In Pakistan, se una donna dice di volere la propria indipendenza, la gente pensa che non voglia più obbedire al padre, ai fratelli o al marito. Ma non è questo il significato della parola. "Indipendenza" significa che vogliamo prendere da sole le decisioni che ci riguardano, che vogliamo essere libere di andare a scuola o al lavoro. Da nessuna parte nel Corano c'è scritto che le donne debbano dipendere da un uomo. Nessuna voce è scesa dal cielo per dirci che ogni donna dovrebbe dare retta a un uomo."
Tutto ciò che Malala ha detto e fatto finora non sarebbe stato possibile se non avesse avuto alle spalle una famiglia che la sosteneva e l'appoggiava in tutto. Molte sue compagne di classe la pensano esattamente come lei e sono convinte che si debba fare qualcosa per cambiare, ma non hanno dei genitori che le supportano e le aiutano.
Quindi una nota di merito va al padre di Malala, Ziauddin, il quale si è impegnato per primo per l'istruzione di tutti nel suo paese, creando una scuola aperta sia a bambini che bambine, portando avanti un ottimo percorso di studi. Prima di tutto è lui il primo attivista, anche politico, della famiglia, un uomo istruito, coraggioso, determinato e amorevole.
Ma anche sua madre, Tor Pekai, è stata importante e fondamentale, mai un personaggio secondario, silenzioso e rinchiuso in casa, ma una donna aperta, generosa, cordiale e rispettosa con tutti ma che non si fa certo mettere i piedi in testa da nessuno, e che sostiene marito e figlia in tutto e per tutto.
Con due esempi così carismatici e incisivi, certo Malala non poteva essere diversa da loro: coraggiosa, determinata, altruista e rispettosa. Lei ha preso esempio e spunto dai suoi straordinari genitori, ma poi ha cominciato a camminare con le proprie gambe, portando avanti il proprio pensiero con determinazione e sicurezza.

Dopo numerose minacce di morte, nell'ottobre del 2012 un talebano sale nel bus che sta portando a casa le ragazze da scuola. Spara tre colpi. Due ragazze vengono ferite lievemente, ma Malala viene colpita gravemente al volto. Quasi non si accorge di ciò che è accaduto, ma da quel momento comincia una lotta tra la vita e la morte che la porterà in tre ospedali diversi del Pakistan e poi in uno a Birmingham, in Inghilterra.
Fortunatamente sopravviverà e tra numerose operazioni e molta riabilitazione, Malala comincerà una nuova vita, una seconda possibilità, in un Paese nuovo (l'Inghilterra), ma anche con una nuova consapevolezza e molto più coraggio e determinazione di prima nel portare avanti la sua idea di un mondo migliore per tutti.

Oggi Malala Yousafzai e la sua famiglia vivono a Birmingham e da quel giorno non sono più tornati in Pakistan, per evitare di essere ancora soggetti di attentati e minacce. Il suo attentatore non è mai stato arrestato. Malala continua a studiare e a essere attiva nei suoi progetti per migliorare la situazione nel suo paese d'origine. Ma il Pakistan le manca immensamente e soprattutto la sua valle.
È stato istituito il Malala Fund, una fondazione che mira a investire denaro in azioni che diano più potere alle comunità locali, sviluppare soluzioni innovative basate su approcci tradizionali e dare a tutti non solo l'alfabetizzazione di base, ma gli strumenti, le idee e le reti che possono aiutare le ragazze a far sentire la loro voce e a creare un domani migliore.
Tutte le informazioni necessarie per contribuire le trovate su www.malalafund.org.

Con la sua storia Malala è un vero esempio di femminismo e una voce in nome e per conto dei milioni di bambine e ragazze in tutto il mondo alle quali è negato il diritto di andare a scuola e di realizzare il loro potenziale.
Questa è la biografia interessante e struggente, di una ragazza speciale che desidera con tutto il cuore di rendere il mondo un posto migliore per tutti, e che si legge in modo scorrevole e appassionante come un romanzo.
C'è un adagio che mi è sempre piaciuto molto, molto significativo, che con le sue poche parole permette di riflettere su come si comporta di solito l'essere umano e come, invece, dovrebbe comportarsi l'umanità intera. Sono rimasta piacevolmente sorpresa di averlo ritrovato in questo libro e ve lo riporto qui sotto, alla fine della mia recensione, in modo che possiate rifletterci e farlo anche un po' vostro:
"Dapprima vennero a cercare i socialisti, e io non dissi niente perché non ero socialista; poi vennero a cercare i sindacalisti, e io non dissi niente perché non ero un sindacalista. Poi vennero a cercare gli ebrei, e io non dissi niente perché non ero ebreo. Poi vennero a cercare i cattolici, e io non dissi niente perché non ero cattolico. Poi vennero a cercare me, e non c'era rimasto nessuno che parlasse in mia difesa."

mercoledì 22 marzo 2017

ROMANZI A PUNTATE: MILDRED PIERCE di James M. Cain


Nel 1941 James M. Cain pubblica questo noir che però si mescola al mélo (melodramma). Mildred Pierce è una donna dal carattere forte, ha un'incredibile capacità di andare dritta allo scopo e un fondato scetticismo nei confronti degli uomini. Molto affine alle tradizionali dark lady che usavano la seduzione per condurre qualsiasi maschio capitasse loro a tiro a forme di distruzione spesso peggiori della morte.
Ma oltre che contro gli uomini, Mildred deve combattere contro la propria figlia, Veda: una creatura subdola e dotata di rara cattiveria.

La casalinga di Glendale, California, Mildred Pierce viene malamente abbandonata dal marito sognatore e inetto Herbert. Per far fronte alle spese di mantenimento delle due figlie e della casa, oltre a vendere le sue squisite torte a vicini e amici, Mildred si ritrova a fare la cameriera in un ristorante vicino a Hollywood, di nascosto dalla figlia maggiore Veda, che considererebbe disonorevole avere una madre che serve il pranzo per sopravvivere. Ma questo la spinge a prendere un decisione molto importante: mettersi in proprio e aprire un piccolo ristorante.
Mentre Mildred si da da fare per trovare il posto giusto e sbrigare tutta la burocrazia che serve per aprire un'attività, incontra Monty, un annoiato uomo dell'alta borghesia americana. Con lui nasce subito una storia fatta più di passione che di veri sentimenti d'amore; che finisce dopo un po' di tempo perché la donna è convinta che Monty stia allontanando la figlia Veda da lei.
In poco tempo il ristorantino di Mildred ha un enorme successo e ben presto l'ex casalinga si ritroverà a gestire ben tre ristoranti e una pasticceria.
Ma il rapporto con Veda, sempre stato turbolento e conflittuale, si deteriora sempre di più fino al momento della rottura inevitabile e clamorosa. Da quel momento Mildred si impegnerà per riallacciare i rapporti con l'amata figlia e per farlo ricorrerà anche a Monty, che ormai detesta ma che le serve per raggiungere il suo scopo, arrivando a sperperare tutto il suo patrimonio e a non curarsi più dei suoi affari.

Questo romanzo parla del grande Sogno Americano. Vicino al luogo in cui i sogni prendono vita (Hollywood), nel periodo della Grande Depressione, in un Paese dove (sembra) tutto è possibile, Mildred lascia il marito inetto e scansafatiche e, ritrovandosi quasi in bancarotta, prende in mano la sua vita e la rivoluziona totalmente: passando da semplice cameriera a proprietaria di diversi ristoranti caratteristici e di grande successo. Vivendo anche una storia scandalosa con il rampollo di una ricca famiglia californiana, ricca di passione e sensualità, ma povera di veri sentimenti.
Potrebbe sembrare la tipica storia di riscatto, di sapersi rialzare da una situazione terribile per arrivare al successo e alla felicità, ma c'è molto di più tra le pagine di questo libro.

È la storia di due donne, la madre Mildred e la figlia Veda, legate tra loro in modo contorto come due alberi costretti a crescere troppo stretti, in cui entrambi cercano la luce, ma si ostacolano a vicenda costantemente.
Mildred prova un amore ossessivo e quasi perverso (passatemi il termine) per Veda. Alla figlia è tutto concesso, è bellissima e talentuosa, per questo merita tutto. Alla morte della figlia minore Ray, Veda diventa l'unico scopo della vita di Mildred, legandola ancora di più alla ragazza e arrivando a ringraziare Dio per averle risparmiato la figlia preferita.
Assolutamente cieca agli sbagli e alle cattiverie della figlia, Mildred è totalmente conquistato dal modo di fare e di essere di Veda, perdonandole qualsiasi cosa.
Dal canto suo Veda possiede una rara cattiveria ed è viziata come poche, vuole tutto e subito puntando i piedi se non lo ottiene. È una di quelle persone che ha bisogno di denigrare e sminuire gli altri per sentirsi superiore, perché non ha altro: non ha talento, né intelligenza; soltanto una grande altezzosità e arroganza. Cosa evidente per tutti, tranne che per Mildred.
Bersaglio preferito di questi attacchi è la madre, che la ragazza ha sempre considerato inferiore a lei, permettendosi di dirle qualsiasi offesa e umiliandola costantemente.

Un punto importante del libro è anche la lotta di classe: un contrasto che si trovava spesso nei romanzi, soprattutto americani, fino a qualche decennio fa. Un continuo confronto tra l'alta borghesia, quei "vecchi ricchi" che hanno un certo patrimonio famigliare che gli permette di non lavorare; e i "nuovi ricchi" che lo sono diventati grazie alle proprie capacità e abilità, come Mildred. Questi ultimi non sono mai considerati all'altezza di chi, invece, è ricco di famiglia.
Per quanto Mildred possa guadagnare, avere diverse proprietà, e avere tanti soldi da permettersi ogni confort e molto di più; verrà sempre disprezzata dall'alta borghesia, guardata dall'alto in basso, perché la sua fortuna deriva dal lavoro, dallo sporcarsi le mani in prima persona, e per quanto rispettabile sia loro la vedranno sempre come una cameriera, una serva.
Ad esempio, anche quando Monty perde tutto il patrimonio di famiglia e si ritrova a farsi mantenere da Mildred, comunque continua a disprezzarla perché lavora. Un ipocrita che approfitta dei soldi della donna per continuare a fare la bella vita e soddisfare i suoi capricci, ma disprezzando da dove arriva quel denaro.

Con Mildred Pierce si affronta una parabola che sale fino al successo più grande e alla felicità, per poi precipitare velocemente verso la disfatta e il baratro più profondo.
E finalmente alla fine, dopo aver sofferto, aver perso tutto ciò che aveva dai ristoranti agli amici alla figlia stessa (ma poi l'ha mai avuta?), dopo aver perso anche la dignità ed essere crollata emotivamente e fisicamente, e dopo l'ultimo tiro mancino di Veda, finalmente Mildred riesce a tagliare quel cordone ombelicale tossico e distruttivo che la legava troppo stretta alla terribile figlia.

Tra marzo e aprile 2011 va in onda negli Stati Uniti (qui in Italia arriverà a ottobre) la mini-serie "Mildred Pierce" in cinque puntate, prodotta da HBO e diretta da Todd Haynes, già regista di un bellissimo film come Lontano dal paradiso del 2002.
Questa versione televisiva vede nel ruolo della protagonista, Mildred, una straordinaria e bellissima Kate Winslet affiancata da Evan Rachel Wood nei panni della terribile Veda e Guy Pearce in quelli di Monty.

La mini-serie è estremamente fedele al libro per scene e ambientazioni, persino alcuni dialoghi possono essere ritrovati parola per parola nel romanzo.
Così bella e curata nei particolari, dalle scenografie ai costumi, dalla fotografia alla musica, che l'ho vista diverse volte (cinque volte) senza mai stancarmene.
Differenze non ce ne sono, tutto scorre esattamente uguale, quindi decidere di leggerlo prima e guardarlo poi, o viceversa, non cambia molto: vi ritroverete davanti praticamente lo stesso prodotto.
Forse nel libro c'è qualche riflessione in più fatta da Mildred, ci viene spiegato meglio ciò che la donna prova o pensa; ma a dire la verità si capisce benissimo anche nella versione televisiva grazie alla bravura di Kate Winslet. La sua mimica facciale è incredibile, è in grado di trasmettere perfettamente ogni emozione e con un solo sguardo riesce a far capire quello che le passa per la testa, o ciò che prova. Per questo è considerata una vera attrice completa, espressiva e straordinariamente convincente in ogni suo ruolo, e questo non fa certo eccezione.
Una nota di merito a Morgan Turner prima e Evan Rachel Wood poi, per aver interpretato il personaggio di Veda Pierce (la prima da bambina e la seconda da ragazza). A causa del carattere capriccioso, subdolo e arrogante di questo personaggio, la sua trasposizione televisiva rischiava di diventare una caricatura, una macchietta quasi comica e ridicola. Invece le due interpreti sono state bravissime nel calcare la mano su alcuni aspetti e smussarne altri, in modo da creare un personaggio fastidioso e odioso proprio come traspare dal libro (se non peggio), la perfetta antagonista di Mildred.

Per chi se lo fosse perso, esiste anche un film tratto dal libro di James M Cain che si intitola "Il romanzo di Mildred" (1945) diretto dal regista Michael Curtiz, con la sceneggiatura di William Faulkner, che valse un Oscar come Miglior Attrice all'affascinante Joan Crawford.
Io non l'ho ancora visto, ma so che in questa trasposizione cinematografica l'aspetto noir della storia è molto più marcato, la Crawford è una vera e letale dark lady, e per amplificare ancora di più il tutto è stato inserito anche un omicidio, che nell'opera originale non c'è.
Mi incuriosisce molto e credo che prima o poi lo vedrò, per farmi un'idea più precisa e confrontarlo con la serie TV della HBO.

martedì 14 marzo 2017

DALLA PARTE DELLE BAMBINE di Elena Gianini Belotti

Mi ritrovo a parlarvi di un libro evidentemente diverso dal solito: non un romanzo, non una lettura principalmente di svago; ma un saggio accademico, pubblicato la prima volta nel 1973, che porta alla luce un'interessante teoria sull'influenza della cultura che ci circonda, che determina il nostro modo di essere e di concepire la sfera femminile e quella maschile. Una teoria che ha preso sempre più piede negli studi psicologici e che oggi ha forti basi scientifiche, riconosciuta in tutto il mondo e fondamentale per i gender studies.

La tradizionale differenza di carattere tra maschio e femmina non è dovuta a fattori innati, bensì ai condizionamenti culturali che l'individuo subisce nel corso del suo sviluppo.
Questa la tesi appoggiata da Elena Gianini Belotti e confermata dalla sua lunga esperienza educativa con genitori e bambini in età prescolare.
Ma perché solo "dalla parte delle bambine"? Perché questa situazione è tutta a sfavore del sesso femminile. La cultura alla quale apparteniamo - come ogni altra cultura - si serve di tutti i mezzi a sua disposizione per ottenere dagli individui dei due sessi il  comportamento più adeguato ai valori che le preme conservare e trasmettere: fra questi anche il mito della "naturale" superiorità maschile contrapposta alla "naturale" inferiorità femminile.
In realtà non esistono qualità "maschili" e qualità "femminili" ma solo qualità umane. L'operazione di compiere dunque "non è di formare le bambine a immagine e somiglianza dei maschi, ma di restituire a ogni individuo che nasce la possibilità di svilupparsi nel modo che gli è più congeniale, indipendentemente dal sesso cui appartiene.

A dire la verità non c'è molto di più da aggiungere su questo libro dopo questa spiegazione. Tutto ciò di cui tratta Dalla parte delle bambine è racchiuso in questa semplice, concisa e di immediata comprensione sinossi. Questo è ciò che Elena Gianini Belotti ha studiato e osservato per diversi anni, arrivando a queste conclusioni: il condizionamento culturale al quale ognuno di noi è sottoposto fin dalla più tenera età, fin dalla nascita, influisce il nostro modo di concepire, e di essere, maschi o femmine. L'influenza che tutti noi riceviamo da chi ci sta intorno a partire dalla famiglia, dalle insegnanti della scuola materna ed elementare, per arrivare ad amici e conoscenti, determina il nostro essere uomini o donne e ciò che secondo noi "deve essere" e "deve fare" uno o l'altro sesso.
Purtroppo, ancora oggi, la nostra cultura è principalmente patriarcale in diversi e svariati aspetti e questo ci porta ad avere delle idee distorte e piene di pregiudizi su ciò che deve essere una bambina (ma anche un bambino), sottolineando una certa sottomissione e inferiorità delle donne rispetto agli uomini.

Sicuramente figlio del suo tempo, pubblicato negli anni Settanta, ha al suo interno alcuni stereotipi che all'epoca erano ancora molto presenti, ma che oggi fortunatamente ci siamo lasciati alle spalle. Alcune cose descritte nel saggio sono superate o almeno non sono così marcate come all'epoca, ma molte altre invece sopravvivono ancora oggi e condizionano il nostro modo di essere e agire nella società.
Elena Gianini Belotti ci spiega subito, nelle premesse del saggio, quale sia il fine di questa analisi rivolta alle donne:
"Le critica alle donne contenuta in quest'analisi non vuole essere un atto d'accusa, ma una spinta a prendere coscienza dei condizionamenti subiti e a non trasmetterli a loro volta, e contemporaneamente a rendersi conto che possono modificarli."
Il libro è composto da quattro capitoli che analizzano nel dettaglio, e attraverso svariati esempi osservati direttamente sul campo dall'autrice, le quattro fasi in cui questi condizionamenti sono più forti e incisivi nello sviluppo del bambino e della bambina:

  1. L'attesa del figlio. Come in questo periodo di attesa si cominci già a fare una certa distinzione tra maschi e femmine con la scelta dell'arredamento per la cameretta o la scelta dei vestitini, come ad esempio l'assoluta esclusione del colore rose per i bambini, considerato un colore solo  ed esclusivamente per bambine.
  2. La prima infanzia. Come i bambini imparino molto presto la distinzione tra maschi e femmine e attraverso l'imitazione cerchino di identificarsi al loro genere di appartenenza; affrontando anche la così detta invidia del pene da parte delle bambine.
  3. Il gioco, i giocattoli e la letteratura infantile. Di come ci siano giocattoli "giusti" e "sbagliati" per i vari sessi (ad esempio macchinine per i maschi e bambole per le femmine e non viceversa); per non parlare dei vari tipi di giochi, come quelli di movimento e più attivi che sono più accettati per i bambini di quanto non lo sia per le bambine, che invece dovrebbero preferire giochi più tranquilli e statici. E la letteratura infantile, in cui si evidenzia una maggiore presenza di protagonisti maschili rispetto a quelli femminili.
  4. Le istituzioni scolastiche: la scuola infantile, elementare e media. Evidenziando come anche nelle scuole infantili dove ci si propone in primo luogo di rispettare l'individualità di ogni bambino si finisca per riproporre, a volte senza rendersene conto, i consueti modelli di maschio attivo e direttivo e di femmina passiva e subordinata.

Il fatto che sia un libro principalmente accademico non lo rende noioso e di difficile comprensione. L'autrice l'ha concepito perché fosse alla portata di tutti e fruibile a un vasto pubblico, compresi quelli che non hanno fatto studi riguardanti questo settore. Grazie all'innumerevole quantità di esempi e avvenimenti reali, osservati direttamente dalla Belotti, la lettura è scorrevole e interessante. Da questa lettura piacevole si può naturalmente prendere spunto per diverse riflessioni, ma anche osservare più da vicino e con maggiore consapevolezza quei condizionamenti che ci capita di subire o esprimere durante la nostra quotidianità; in modo da prenderne atto e poterli modificare come suggerito dall'autrice stessa.
Come già spiegato all'inizio, non è un comportamento che si attua solo con le bambine, ma anche i maschi sono sottoposti a condizionamenti, pressioni e influenze che li portano ad attuare un determinato modo di essere considerato idoneo al loro sesso. Non permettendo nemmeno a loro di essere e fare ciò che veramente vogliono.

Vi lascio con una riflessione sulla parità e l'uguaglianza tra i sessi, che Elena Gianini Belotti fa proprio all'inizio del libro, ma che io preferisco metterla qui, alla fine della mia recensione, per spingervi a riflettere e spero che queste parole risuonino dentro di voi come hanno fatto dentro di me:
"Non può esistere un colloquio autentico tra persone che stiano tra loro in posizione da dominante a dominato, occorre che si sentano pari. Così anche l'uomo, per ascoltare quello che la donna ha da dire su se stessa, deve sentirla uguale a sé. Ma se l'uomo avesse voglia di ascoltare quello che le donne hanno da dire su se stesse, gran parte dei problemi tra i sessi sarebbe già risolta, cosa che è ben lontana dall'essere vera."

venerdì 10 marzo 2017

ALLE FANCIULLE E ALLE FIGLIE DEL POPOLO di Anna Maria Mozzoni

Voglio continuare con questi libretti di Caravan Edizioni, perché sono veramente veloci da leggere, curati e interessantissimi, ma soprattutto mi hanno fatto conoscere delle figure importantissime per quanto riguarda il femminismo e l'emancipazione delle donne in generale.
Donne intelligenti e coraggiose, che tutti dovremmo conoscere e prendere a esempio.
Vi ho già parlato di Elizabeth Stanton e Lucretia Mott e la loro Dichiarazione dei sentimenti, ora è il momento della lettera di Anna Maria Mozzoni.

Nel 1884 Anna Maria Mozzoni scrive l'opuscolo Alle fanciulle, diviso nei due capitoli: Alle fanciulle che studiano e Alle figlie del popolo. Poche pagine dove spiega alle giovani, qualunque sia la loro condizione sociale, perché sia fondamentale per il benessere delle generazioni a venire impegnarsi nella battaglia emancipazionista e più in generale per il riconoscimento e la tutela dei diritti dei più deboli di fronte a quello Stato, l'Italia, appena nato.
Sono le donne, madri anche di quegli uomini che le opprimeranno, a dover combattere unite per una società equa.

Anna Maria Mozzoni nasce nella provincia lombarda nel 1837, da una famiglia colta e nobile per parte di madre. Il padre era studioso di fisica e la madre fu colei "che l'educò al libero pensiero".
Di quell'unità d'Italia, che lei visse in prima persona, non ne fu soddisfatta a pieno. Proveniva dalla Lombardia, territorio dell'Impero asburgico, a cui le riforme dell'Imperatrice Maria Terese avevano contribuito alla riforma del catasto, all'istruzione elementare impartita teoricamente anche dalle maestre, alla razionalizzazione dell'agricoltura, a un minimo diritto di voto per le donne possidenti che sceglievano i propri amministratori. Insomma, l'impero asburgico aveva avuto dei meriti, mentre l'unità significò per le donne del Lombardo Veneto un parziale regresso.

Già più di 150 anni fa, Mozzoni lottava per una società più equa, per la parità dei sessi, per l'emancipazione femminile e non solo attraverso questa lettera Alle fanciulle e alle figlie del popolo, ma anche con l'opera La donna e i suoi rapporti sociali (1864) in cui evidenziava le pessime condizioni delle operaie e delle lavoratrici in generale; pubblicò nel 1865 La donna in faccia al progetto del nuovo Codice civile italiano rivendicando il diritto di voto amministrativo e politico delle donne; tradusse The Subjection of Women, del filosofo liberale inglese John Stuart Mill, diventato la Bibbia dell'emancipazionismo e del suffraggismo; collaborò a La donna di Padova, uno dei primi giornali all'avanguardia nella lotta per i diritti delle donne; e nel 1878 pronunciò il discorso inaugurale al Congresso Internazionale per i diritti delle donne a Parigi.

Una donna molto impegnata nel difendere i suoi ideali, i valori in cui credeva e denunciare i tanti limiti imposti alle donne in quegli anni. Una vera e propria combattente che spese più di quarant'anni della sua vita a lottare perché le donne fossero più considerate e ottenessero di più in diversi campi, dal lavoro, alla famiglia, alla sfera politica.
Oggi, nel 2017, molti traguardi sono stati raggiunti e lasciati alle nostre spalle, ma non  bisogna dimenticarli e soprattutto non bisogna dimenticare le innumerevoli donne, come Anna Maria Mozzoni, che hanno permesso tutto ciò; che si sono impegnate negli anni per ottenere quei diritti che a volte noi diamo per scontati.

Molto importante per lei era l'istruzione: gran parte del discorso fatto in  Alle fanciulle e alle figlie del popolo sta proprio nello spingere le ragazze a studiare, a costruirsi un'istruzione e a farla valere.
Ma nella sua lunga carriera da attivista c'era anche un altro punto per lei molto importante, quello delle lavoratrici. Operaie, contadine, maestre tutte sottovalutate, sfruttate e sottopagate, che venivano considerate molto inferiori agli uomini.
Una battaglia lunga più di 150 anni, in parte molto attuale, perché ancora oggi non c'è parità tra i sessi nell'ambito lavorativo: a parità di lavoro, una donna viene ancora pagata meno e più si sale nella gerarchia aziendale e meno donne si trovano.
Ci sono ancora delle lotte da portare avanti e dei traguardi da raggiungere per tutte noi donne, una di queste riguarda sicuramente più diritti nell'ambito lavorativo.
Vi lascio con una frase premonitrice di Anna Maria Mozzoni, che si trova all'interno di questo saggio, e che spero vi porterà a riflettere sulla situazione:
Operaie, non chiedete tutela, esigete giustizia.

martedì 7 marzo 2017

DOVREMMO ESSERE TUTTI FEMMINISTI di Chimamanda Ngozi Adichie

Domani è la Festa della Donna, 8 marzo, e per l'occasione voglio consigliarvi questo piccolissimo libricino, un libro di appena quaranta pagine, che potrete leggere tranquillamente mentre aspettate che bolla l'acqua per la pasta, ma che al suo interno racchiude un messaggio importantissimo per tutti, perché dovremmo essere TUTTI femministi.

Questo saggio è la versione rivista di un intervento che Chimamanda Ngozi Adichie ha tenuto nel dicembre 2012 alla TEDXEuston Conference, un incontro annuale dedicato all'Africa in cui oratori provenienti da varie discipline pronunciano brevi discorsi con l'obiettivo di scuotere e ispirare un pubblico formato da africani e amici dell'Africa.

Chimamanda Ngozi Adichie è nata in Nigeria nel 1977 e ha studiato negli Stati Uniti. Già vincitrice di importanti premi con L'ibisco viola e Metà di un sole giallo, con Americanah ha conquistato la critica aggiudicandosi il National Book Critics Circle Award 2013 e giungendo tra le finaliste del Baileys Women's Prize for Fiction 2014.

In un discorso fluido, scorrevole, a tratti divertente, e per nulla prolisso o noioso, in cui Adichie cerca di spiegare, e far capire il più chiaramente possibile, cosa voglia dire essere una donna oggi. Attingendo molto spesso alla sua vita privata, portando ad esempio alcuni degli avvenimenti accaduti personalmente. Tre assolutamente eloquenti e significativi:
  • Quando alle elementari prese il voto più alto della classe in un compito e per questo aveva l'opportunità di diventare capoclasse, come aveva promesso la maestra; ma poi, la stessa maestra, le disse che il capoclasse doveva essere un maschio. Lo aveva dato per scontato.
  • Oppure quando, entrando in uno dei migliori alberghi della Nigeria, fu fermata dalla guardia che le chiese come si chiamava l'uomo che aspettava. Perché se una donna nigeriana entra in un albergo da sola, è una prostituta, non può essere assolutamente un'ospite che paga la propria stanza. Se un uomo entra nello stesso albergo, non viene fermato.
  • O ancora come le fu fatto notare che la rabbia non si addice a una donna. Se sei una donna, non ci si aspetta che tu esprima rabbia, perché è minacciosa
Nel suo saggio tocca molti punti importanti, per spiegare come nel nuovo Millennio ancora non si sia arrivati a uno stato di parità tra uomini e donne. Basti pensare alla maggior parte dei posti di potere e di prestigio che sono occupati da uomini, perché più si sale nella scalata al successo e meno donne si trovano.
Di come si sbagli ad insegnare alle ragazze a preoccuparsi di cosa pensano i ragazzi, a spingerle a competere tra loro per un uomo e per chi è la più bella, invece di sostenerle ad essere loro stesse e a competere per essere qualcuno nel mondo. Ci preoccupiamo a insegnare alle ragazze a non essere aggressive, toste o arrabbiate, perché non sta bene. Dall'altra parte però sbagliamo anche a educare i maschi. Con un idea ristretta e stereotipata di virilità, a cui diamo un'importanza spropositata, soffochiamo l'umanità e la sensibilità dell'uomo, che si ritrova rinchiuso in un modo di essere che magari non gli appartiene fino in fondo, invece di lasciarlo libero di esprimersi come vuole.

Ma femministi si nasce o si diventa? Per Chimamanda Ngozi Adichie probabilmente il femminismo è venuto naturale, fin da bambina lo era, da quando il suo migliore amico le disse "Sei proprio una femminista", e lei tacque perché ancora non sapeva cosa volesse dire quella parola; per poi arrivare a definirsi ironicamente "una Femminista Felice Africana Che Non Odia Gli Uomini e Che Ama Mettere il Rossetto e i Tacchi Alti Per Sé e Non Per Gli Uomini".
Per altri invece è diverso, è forse più difficile, ma femministi lo si può diventare. Basta riflettere accuratamente, anche grazie a questo libricino, sul ruolo di svantaggio che questa società riserva alla donna. Anche se sono stati fatti molti passi avanti dal secolo scorso, ancora non siamo arrivati a un livello di parità che gioverebbe a tutti, anche agli uomini, e non solo alle donne.

Questo piccolo libro, con le sue potenti parole all'interno porta una ventata di aria fresca a un femminismo stantio e visto attraverso numerosi stereotipi inutili e dannosi. Apre la strada a una definizione del termine più giusta e includente, per il XXI secolo:
"Femminista è una persona che crede nell'eguaglianza sociale, politica ed economica dei sessi."
Ma allora perché si parla ancora di femminismo? E non più in generale di diritti umani?
È la stessa autrice a rispondere: "Perché non sarebbe onesto. Il femminismo è ovviamente legato al tema dei diritti umani, ma scegliere di usare un'espressione vaga come quella, vuol dire negare la specificità del problema del genere. Vorrebbe dire tacere che le donne sono state escluse per secoli. Vorrebbe dire negare che il problema del genere riguarda le donne, la condizione dell'essere umano donna, e non dell'essere umano in generale."

È importante che ognuno di noi legga questo piccolissimo libro, è importante quello che troverete tra le sue pagine, ed è importante ciò che porterete con voi.
Voglio lasciarvi con una frase che a me ha fatto riflettere molto, la frase con cui Chimamanda Ngozi Adichie chiude il suo discorso, la frase da cui può partire una riflessione costruttiva per cambiare un punto di vista:
"La cultura non fa le persone. Sono le persone che fanno la cultura. Se è vero che la piena umanità delle donne non fa parte della nostra cultura, allora possiamo e dobbiamo far sì che lo diventi."


Come l'anno scorso che, nei giorni precedenti la Festa della Donna, uscì nelle sale cinematografiche "Suffragette" (che se non avete visto, è il momento di recuperare); anche quest'anno, in questi giorni, potrete andare a vedere un'altro film che parla di femminismo e parità: "Il diritto di contare".
La storia, fino poco tempo fa sconosciuta, delle donne nere che lavorarono alla Nasa e che, attraverso i loro calcoli e le loro capacità, contribuirono a mandare l'uomo nello spazio. Un film su donne forti, tenaci, in un epoca in cui essere donne e nere voleva dire valere meno di zero; e che con caparbietà hanno lottato e combattuto piccole battaglie giornaliere: dei piccoli passi per delle donne capaci, dei grandi passi per l'uguaglianza e l'integrazione.

venerdì 3 marzo 2017

DICHIARAZIONE DEI SENTIMENTI (e risoluzioni) di Elizabeth Stanton e Lucretia Mott

Dato che a marzo c'è la Festa della Donna, ho deciso di dedicare tutto il mese a letture sulle donne e più precisamente sul femminismo: che cos'è; come è nato; chi coinvolge; e perché è così importante ancora oggi.
È un termine bistrattato, erroneamente a volte coincide con "odiamo tutti gli uomini, le donne vengono prima di tutti e tutto". Ma in realtà femminismo vuol dire semplicemente parità di genere, nessuno è superiore a nessun'altro e si tratta sostanzialmente di lottare perché tutti, minoranze etniche/religiose/di orientamento sessuale comprese, uomini e donne, possano arrivare a una completa parità di diritti.
Importante è capire da dove nasce questa corrente, questo pensiero, e per questo ci viene in aiuto un libricino piccolo, ma potente, che si intitola "Dichiarazione dei sentimenti", pubblicato nella collana Segnavia di Caravan Edizioni.

A casa di Jenny Hunt, durante un tè tra amiche, Elizabeth Stanton, Lucretia Mott e Martha Wright parlarono della condizione della donna in quegli anni. Era il 1848, l'America stava dando vita ai primi tumulti contro la segregazione razziale e le donne cominciavano a muoversi per poter avere più diritti, tra cui quello più importante per l'epoca, e cioè il diritto al voto.
Tra una chiacchiera e una tazza di tè, queste quattro donne nemmeno si accorsero di aver dato il via a un fenomeno che avrebbe rivoluzionato la condizione della donna negli anni a venire e che continua tutt'ora a raggiungere traguardi importantissimi per tutte le donne del mondo.
Prima che scendesse la notte, Elizabeth Stanton e Lucretia Mott misero per iscritto quella che passò alla storia come la "Dichiarazione dei sentimenti": un manifesto, rivolto a tutti gli uomini, che in poche parole dichiarava che le donne si erano stufate di non essere ascoltate e di essere considerate inferiori agli uomini, elencando tutte le situazioni in cui le donne non avevano diritti, ma solo doveri nei confronti degli uomini; per poi mettere per iscritto le loro condizioni e i cambiamenti che avrebbero voluto vedere, ad esempio:

  • che la donna è uguale all'uomo
  • che le donne devono essere messe al corrente delle leggi che le governano
  • che lo stesso grado di virtù, delicatezza e raffinatezza del comportamento richiesto alla donna nella società dovrebbe essere richiesto anche all'uomo, e che le stesse trasgressioni vengano valutate con equa severità nei confronti degli uomini e delle donne
  • che l'uguaglianza dei diritti umani deriva necessariamente dal fatto che la razza umana è una nelle capacità e nelle responsabilità
  • che è dovere delle donne di assicurarsi il proprio sacro diritto al voto elettorale

Divenne il primo manifesto del femminismo americano, specchio di un movimento per i diritti civili e politici delle donne. Fu letto per la prima volta, di fronte a una numerosa folla, dalle due firmatarie in persona il 18 luglio 1848.
Da quel momento il movimento si diffuse molto rapidamente: per la prima volta le donne venivano messe al centro, non più considerata solo figlie, mogli e madri, ma persona dotate di coscienza e autonome, cui spettavano gli stessi diritti degli uomini.

Il movimenti prese il via da donne bianche, del ceto medio, ben informate sugli eventi, intelligenti e coraggiose. Considerate privilegiate rispetto ad una grande fetta del paese che viveva di poco e niente e a persone, prevalentemente nere, che erano ancora considerati schiave dell'uomo bianco. Nonostante questo, loro presero coscienza della loro situazione e combatterono per i diritti delle donne e il suffragio, ma al tempo stesso si impegnarono anche molto per il movimento abolizionista, unendo le forze per poter ottenere di più, potendo contare su un reciproco sostegno.

Il femminismo americano, che nacque da questa dichiarazione, era diverso da quello che contemporaneamente nasceva in Europa. Le quattro amiche, e tutte le abolizioniste e suffragiste statunitensi, avevano formato la loro identità politica sui documenti delle rivoluzionarie francesi e delle rivendicazioniste inglesi, come Mary Astell e Mary Wollstonecraft.
Anche la preponderanza del protestantesimo rendeva la società statunitense molto diversa da quella europea e questo si rifletteva non solo sul lessico e sul simbolico, ma anche sul ruolo concreto delle donne nella società.
Nella Francia del 1848, le donne della corrente del socialismo utopista di Robert Owen e Charles Fourier parlavano del lavoro femminile in termini di diritto e di equità sociale e retributiva, oltre che di parità giuridica, di voto e di divorzio.
Mentre in Europa si sviluppavano i femminismi socialista, utopista e marxista, in America nasceva il femminismo liberale, diventato uno dei principali filoni del femminismo ottocentesco.

Un piccolissimo saggio, che si legge in un ora al massimo, che racchiude una accurata e dettagliata introduzione di Maria Paola Fiorensoli intitolata "Come prendere un tè e fondare il movimento femminista liberale", dove racconta la storia di come è nato tutto: da quel tè tra amiche, fino alla morte delle due donne da cui è partito questo movimento, passando per le vicende in Europa (francesi, inglesi e italiane), per i movimenti abolizionisti di metà Ottocento e per la loro prima Convenzione sui diritti delle donne.
Di seguito all'introduzione, viene riportata l'intera Dichiarazione dei sentimenti e le Risoluzioni scritte e firmate da Elizabeth Stanton, Lucretia Mott, Martha Wright e Mary Ann McClintock.

Quattro semplici donne che hanno dato vita a un movimento che è vivo ancora oggi, considerato dannoso e poco utile solo perché spesso frainteso nelle sue intenzioni e principi. Ma se ci informiamo in modo adeguato e capiamo cosa c'è alle spalle di questo femminismo, capiremo che è indispensabile sorreggere questo modo di pensare ancora oggi, perché tantissima strada è stata fatta da donne coraggiose e forti, ma tanta altra strada è ancora da fare e oggi tocca a noi.